Uncai intervista Paolo De Castro


Ttip, una sfida comune ad agricoltori e contoterzisti

De Castro: “Un’opportunità per l’agri​coltura italiana, ma la qualità non basta. Occorrono organizzazioni di categoria, consorzi, sistemi a rete più coesi”. Sul modello di Uncai e Confagricoltura

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, più noto come Ttip, è un accordo, ancora in fase di negoziazione, per il libero scambio tra i mercati europeo e statunitense, un sistema per far circolare le merci più facilmente senza le barriere "non tariffarie", cioè quei controlli che impediscono ancora oggi l’import export di alcuni prodotti tra Europa e Usa. Relatore permanente per il negoziato per il capitolo agricoltura è l'eurodeputato Paolo De Castro, più volte ministro delle Politiche agricole e già presidente della Commissione agricoltura nella precedente legislatura.

Uncai, con il direttore Francesco Torrisi, ha avviato con Paolo De Castro una riflessione sugli aspetti organizzativi del comparto agricolo italiano in vista di un possibile accordo sul libero scambio Ue-Usa.

In agricoltura il Ttip rappresenta un’​opportunità più per l’Europa o per gli Usa?

Le esportazioni europee verso gli Usa riguardano prevalentemente prodotti finiti di qualità come vino, olio, formaggi e pasta che non possono essere rimpiazzati da prodotti di pari qualità di altre aree geografiche. Al contrario, i prodotti che l’Ue importa dagli Usa sono perlopiù commodities (mais e grano) che potrebbero arrivare anche da altri mercati. Inoltre il trend delle esportazioni europee verso gli Usa è in crescita e aumenterebbe ulteriormente senza alcune barriere sanitarie, per esempio il divieto di esportare in Usa salumi con una stagionatura inferiore ai 400 giorni.

Non esiste la possibilità​ che, venendo meno alcuni ostacoli, gli Usa possano esportare in Europa carne agli ormoni?

Le regole europee sulla sicurezza del cibo non saranno modificate. L'Europa si è sempre mossa riguardo ad aspetti come quello della carne agli ormoni o degli OGM seguendo il principio di precauzione, per cui prima di immettere qualsiasi cosa sul mercato occorrerà sempre verificare che non sia nocivo per la salute. Inoltre gli standard degli Usa e i sistemi di controllo sono ancora più rigidi rispetto a quelli messi in campo dall’Europa, quindi è assurdo sostenere che il trattato porterebbe a un livellamento verso il basso della qualità dei prodotti alimentari presenti nel mercato europeo.

Se si dovessero aprire nuovi mercati in Usa, i nostri agricoltori avranno la forza di raggiungerli?

Non servirà produrre di più, ma puntare maggiormente alle nostre eccellenze, riservando, per esempio, più latte o uva alla produzione di formaggi e vini di qualità, e guardare con più decisione al ricco mercato americano, disposto a pagare gli stessi prodotti di più di altri Paesi. Oggi solo l’8% del nostro export alimentare raggiunge gli Usa; se si raggiungesse il 30% i nostri agricoltori starebbero molto meglio.

Ma le aziende agricole hanno gli strumenti per raggiungere questi mercati?

Se riusciamo a rivolgerci con successo a mercati internazionali è grazie a prodotti di qualità, distintivi, facilmente identificabili, tracciati. Ma la qualità non basta. Per raggiungere mercati lontani, l’Italia deve lasciarsi alle spalle la cultura per cui l’agricoltore deve pensare solo a fare bene l’agricoltore, mentre spetta ad altri occuparsi della commercializzazione. L’imprenditore agricolo moderno è un professionista che dedica il 40% del suo tempo a produrre e il 60% a studiare il modo migliore per immettere il suo prodotto nel mercato. Perché la domanda c’è, occorre saperla intercettare, come abbiamo dimostrato nel nostro ultimo saggio “Cibo”. Come fa l’Olanda, un paese con meno di 100.000 agricoltori che esporta prodotti agricoli per 88 miliardi contro i 34 dell’Italia. Esporta addirittura più agrumi dell’Italia, coprendo benissimo la fase commerciale con strutture distributive concentrate, più fondamentali dei mercatini a km zero.

Perché complicarsi a vita? In Italia una struttura produttiva molto frammentata sembra fatta apposta per una distribuzione al dettaglio e all’ingrosso ugualmente frammentata e locale, non si potrebbe andare avanti così?

Finché si vendevano i prodotti nei piccoli esercizi commerciali, l’agricoltore poteva non curarsi della commercializzazione. Oggi però l’80% dei prodotti passa attraverso le strutture a libero servizio: grandi centrali di acquisto che si rapportano con le organizzazioni di categoria, i consorzi, i sistemi a rete e non con il piccolo produttore agricolo.

Gli agricoltori hanno già dimostrato una volta di saper far fronte alla loro frammentazione ricorrendo ai contoterzisti…

Si può dire che il contoterzismo sia stata la risposta organizzativa italiana alla frammentazione delle imprese agricole, spesso non grandi abbastanza per permettersi le tecnologie più innovative. Gli agromeccanici hanno avuto ed hanno il merito di permettere agli agricoltori di raggiungere una capacità competitiva non inferiore a quella delle aziende francesi e tedesche. Anche l’Europa lo ha riconosciuto, dando la possibilità a regioni e stati membri di includerli nei PSR.

Solo alcune regioni hanno però inserito gli agromeccanici nei PSR, per quale motivo?

C’è un problema politico che non può essere risolto solo sul piano normativo. Tocca alle associazioni degli agricoltori avviare una collaborazione sempre più stretta con gli agromeccanici e progettare una politica comune per ridurre, per esempio, il differenziale tra prezzi al consumo e alla produzione dei prodotti agricoli; ma anche politiche comuni sulla qualità delle produzioni e sulla loro commercializzazione, in vista anche del Ttip e di mercati più ampi; così come sui Psr per disporre di un parco macchine sempre aggiornato e in grado di fare qualità. Ma per cogliere tutti questi obiettivi, gli agricoltori devono smettere di vedere i contoterzisti come soggetti esterni, come competitor e avviare una collaborazione fruttuosa per entrambi come stanno facendo Confagricoltura e Uncai.

 



Data pubblicazione

29-4-2015

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